martedì 13 marzo 2012

Ci parla di sè
un'amica di vecchia data dei frati,
che qui da noi ha conseguito 
il baccalaureato in Sacra Teologia


Rosita Sartori, classe 1982, è una ragazza della provincia di Vicenza che nell'anno accademico 2008/2009 ha concluso brillantemente il suo iter formativo con una tesi titolata "Il limite che diventa ricchezza. Dal concetto di disabilità a quello di diversabilità". Da tempo è impegnata nell'annuncio della buona notizia che è Cristo, attraverso la sua sorprendente testimonianza di vita e di fede; ha già all'attivo diverse pubblicazioni e collaborazioni.


CI RACCONTI CHI SEI E COSA FAI?

Sono Rosita Sartori, ho 29 anni e vengo da Lonigo, in provincia di Vicenza.
Sono una ragazza solare, dinamica, innamoratissima della vita e diversabile.
L'amore verso Dio è sempre stato la ragione della mia esistenza, tanto da spingermi a conseguire la laurea in Teologia presso l'istituto Teologico Sant'Antonio Dottore di Padova.
Da diverso tempo dedico gran parte della mia vita ad annunciare la grandezza di Gesù tramite incontri, testimonianze e conferenze combattendo contro i pregiudizi, contro chi ritiene il deficit solamente un impedimento e non una ricchezza.
Ogni persona deve essere chiamata con il proprio nome in quanto, appunto persona creata a immagine e somiglianza di Dio, e non inserita in categorie che in realtà non hanno motivo di esistere.
“Chi ha conosciuto la gioia dell'incontro col Cristo, non può tenerla chiusa dentro di sé ma deve irradiarla” (Beato Giovanni Paolo II).


CHI TI CONOSCE NON PUÒ NON ATTESTARE CHE TU SEI LETTERALMENTE UN VULCANO DI VITALITÀ, DI GIOIA E DI FEDE: TI VA DI CONDIVIDERE CON NOI LA TUA ESPERIENZA SPIRITUALE CHE IMMAGINIAMO SIA IL FONDAMENTO DELLA TUA INCREDIBILE VIVACITÀ UMANA?

Rispondo a questa domanda con le parole, per me sempre attuali, che ho usato al Convegno "La Grande Sfida" , che aveva come tema la diversabilità, tenuto a Verona a Maggio del 2003. Alla domanda "chi è Dio per te?" ho detto, e confermo ancora oggi, che Dio per me è Colui che si autocomunica in maniera unica nella mia vita attraverso suo Figlio Gesù.
Già il fatto di parlarne mi dà una gioia infinita, perchè Dio è per me Padre che mi ama in modo smisurato. Io sento e vedo, proprio nella mia vita quotidiana, fin da quando ero piccola, che il Suo Amore luminoso non si ferma mai e continua ad evolversi.
È questa certezza che mi fa dire e pensare che la vita è bellissima anche quando ci si imbatte in esperienze negative o dolorose, ed è questa certezza che nelle difficoltà mi ha fatto sentire sorretta e presa per mano, non permettendomi mai di cadere.
È stata una spinta vocazionale anche quella che mi ha portato ad iniziare la facoltà di Teologia a Padova; è stato Gesù a darmi questa spinta e ad un certo punto mi sono trovata a sentire in modo chiaro e travolgente che la cosa giusta per me era quella di cercare di seminare la Sua Parola nel mondo attraverso la mia vita quotidiana.
Tutto quello che ho vissuto e che vivo lo ritengo sicuramente parte di un Progetto Divino e, grazie a questa consapevolezza, mi è dato di vedere Gesù quotidianamente presente e concretamente attivo nella mia esistenza e mi è data ogni volta la possibilità di sperimentarlo all'opera nelle persone che mi circondano.
San Paolo dice: "Tutto è dono, Tutto è Grazia" e io mi sento veramente fortunata per aver così chiaro il fatto che Gesù mi ama in modo così unico e che Lui mi ha rivelato e mi rivela sempre che una vita donata e vissuta per gli altri è l'unica cosa per cui l'esistenza abbia veramente senso.


ROSITA… COSA TI LASCIANO TUTTI GLI SGUARDI CHE SI POSANO SU DI TE E, ANCHE SENZA VOLERLO, TI CUCIONO ADDOSSO COMPASSIONE E PIETÀ? CHE NE DICI DI PARAFRASARE CON TONI MODERNI S. FRANCESCO E PARLARE COSÌ DI “SORELLA DISABILITÀ”?

Per parlare del pregiudizio, utilizzo alcune riflessioni tratte dalla mia tesi di laurea:

Il pregiudizio, originando un processo mentale che confonde i concetti di deficit e di handicap, induce ad identificare la persona diversamente dotata con le difficoltà derivanti dal suo limite e tralascia che l’handicap è solo il prodotto del deficit e degli effetti derivanti dalle risposte dell’ambiente fisico e sociale circostante. In questo modo esso veicola atteggiamenti e linguaggi emarginanti e diviene la prima causa di una visione esclusivamente negativa e problematica del deficit. Il pregiudizio è una forma di cecità, un “non vedere” che può colpire chiunque. Le persone “affette” da pregiudizio non sono capaci di meravigliarsi, di guardare alla realtà in modo diverso dal senso comune, di guardare appunto senza la maschera del pregiudizio. Nel contrastare allora questa tendenza a giudicare secondo schemi mentali precostituiti, a dare etichette, a categorizzare il nuovo per renderlo innocuo e non problematico, diventa indispensabile la meraviglia, atteggiamento che è alla base del dubbio e della ricerca. Il linguaggio comune tende spesso a confondere i termini “deficit”, “handicap”, “disabilità” e, utilizzandoli così erroneamente, contribuisce non poco a creare quelle “barriere” innanzitutto mentali che invece di innescare atteggiamenti, comportamenti e modi di agire integranti, includenti l’altro quale entità biologica che fa naturalmente parte del creato, lo allontanano e creano la categoria della “diversità ”e dello “scarto”. Questi termini infatti riportano alla mente dell’uomo comune idee e sensazioni negative, quali quelle di sofferenza, malattia, disagio, emarginazione. Vale la pena allora di soffermarsi sul significato delle parole che si utilizzano per imparare ad usarle correttamente ed evitare così di alimentare il pregiudizio e le conseguenti forme di emarginazione che ne derivano. Quando si parla di disabilità bisogna distinguere tra il termine deficit e il termine handicap. Mentre il primo infatti «è la conseguenza di alcune malattie o di incidenti: la mancanza di alcune abilità fisiche o psichiche», il secondo «è lo svantaggio sociale provocato non soltanto dal deficit, ma anche dalla carenza di strutture adeguate». Confondere le due parole significa identificare la persona «con le difficoltà derivanti dalla menomazione, tralasciando quelle causate dalle relazioni con l’ambiente fisico e sociale circostante», significa non avere chiaro che l’handicap è una categoria trasversale alle persone, che «anche un normodotato può essere handicappato in alcune situazioni della vita». Un termine più propositivo e positivo allora per definire le persone con deficit potrebbe essere “diversabile”. Questa parola aiuta a vedere la persona con deficit «in una prospettiva nuova, meno istantanea nella constatazione del deficit, meno medica, più attenta ad una storia, ad un cammino di acquisizione di abilità». Naturalmente utilizzare un linguaggio diverso non è sufficiente per cambiare le cose, ma può modificare il modo di percepirle e questo è già un punto di partenza.

Proprio in relazione a questa attenzione al linguaggio, vanno distinti anche i termini "pietà" e "compassione". Essi infatti rappresentano due atteggiamenti diversi: il primo lo vivo personalmente in modo molto negativo, dato che mi pare generare soltanto mero assistenzialismo e sguardi che non ti fanno sentire una persona come le altre, con delle ricchezze da donare; il secondo termine invece richiama, a mio avviso, l'atteggiamento del vero amore : "cum-patire" vuol dire condividere e prendersi cura di qualcuno in una logica di reciprocità, di arricchimento reciproco che prevede l'aprirsi all'altro e il donarsi vicendevolmente in modo disinteressato. Se usassimo l'episodio di quando S. Francesco racconta che Gesù gli ha detto "va e ripara la mia casa" relativamente al tema della diversabilità, potremmo dire che queste parole significano per me "va e costruisci un nuovo modo di relazionarti al deficit".



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